Moda, filiera della pelle, transizione ecologica e inclusione sociale: alcuni spunti

Di Andrea Marchesini Reggiani, membro del Comitato di esperti per il supporto al G20 Ambiente presso il Ministero della Transizione ecologica

A livello globale, ogni anno l’industria della moda produce milioni di tonnellate di capi d’abbigliamento, calzature e accessori che vengono indossati, spesso pochissime volte, e gettati. La diffusione della cosiddetta fast fashion, che offre capi di tendenza a cicli accelerati e prezzi accessibili, ha raddoppiato la produzione e, quindi, la distribuzione di abbigliamento, portandola dai 50 miliardi di pezzi realizzati nel 2000 agli oltre 100 miliardi del 2015[1]. La “moda veloce” ha radici lontane. A fine anni ’80 si raccontava che fossero sufficienti 15 giorni affinché un capo d’abbigliamento passasse dalla mente creativa di uno stilista alla vendita in negozio, con una drastica riduzione del time to market, in netta contrapposizione con i cicli del modello Prêt-à-porter e della Haute Couture. Per decenni la “moda veloce”, espressione della nuova cultura globale, è stata interpretata come il processo di democratizzazione del settore (il New York Times riportava nei primi anni 2000 “it was chic to pay less”) che, parallelamente, obbligava a ritmi di fabbricazione a tal punto elevati da spostare la produzione in paesi con manodopera a basso costo, con conseguenti costi sociali e ambientali. L’industria della moda descritta nel rapporto 2017 della Ellen MacArthur Foundation, dal titolo A New Textiles Economy: Redesigning Fashion’s Future[2], rappresenta un business da 1,3 trilioni di dollari con un consumo di 98 milioni di tonnellate annuali di risorse non rinnovabili, tra le quali il petrolio per produrre le fibre sintetiche, i fertilizzanti per le piantagioni di cotone e i prodotti chimici per produrre, tingere e rifinire fibre e tessuti, sfruttando inoltre 93 miliardi di metri cubi di acqua e riversando negli oceani 500mila tonnellate di fibre di microplastica. Il settore produce circa 1,2 miliardi di tonnellate di CO2 all’anno: più del totale dei voli internazionali e del trasporto marittimo messi insieme[3]. Ogni secondo l’equivalente di un camion carico di vestiti viene bruciato o portato in discarica. Ad oggi, in Italia, la raccolta dei rifiuti del settore produce circa 150mila tonnellate l’anno: il 20% in più rispetto al 2014[4]. Circa il 70% del totale viene stimato come riutilizzabile e poi separato per qualità e tipologie e, successivamente, venduto in parte in Italia e in parte all’estero, soprattutto Tunisia ed Est europeo, ma anche Ghana e Niger[5], anche se l’importazione di abiti usati è soggetta a restrizioni e divieti in molti paesi emergenti (tra i quali Cina, India, Sud Africa e Brasile) con l’obiettivo di tutelarne le produzioni[6]. Il mercato di Kantamanto di Accra (Ghana), ad esempio, è stato definito una delle “sacrifice zone” della moda, dove si concentra lo smaltimento di circa 100 milioni di indumenti al mese: abiti inutilizzati e stock dismessi smistati e trattati da manodopera a basso costo[7].

Un altro tema cruciale è quindi quello delle condizioni dei lavoratori di questo settore nei paesi emergenti in cui sono state delocalizzate le lavorazioni, per questo motivo l’opinione pubblica ha rinforzato il proprio posizionamento nei confronti della trasparenza dei processi produttivi[8]. Nel 2016, KnowTheChain, iniziativa condotta da Humanity United, Business & Human Rights Resource Center, Sustainalytics e Verité, analizzava e metteva a confronto 20 aziende di abbigliamento e calzature sulle misure intraprese per combattere il lavoro forzato[9]. ll Global Slavery Index[10] sprona le aziende della moda a utilizzare il proprio potere d’acquisto per trasformare le condizioni di lavoro e implementare i diritti dei lavoratori. Dal 2009, l’Ethical Fashion Initiative[11] dell’International Trade Centre delle Nazioni Unite lavora con cooperative artigiane di diversi paesi africani, Afghanistan e Haiti mettendole in contatto con importanti marchi della moda globale e offrendo un mercato ai loro prodotti con condizioni di lavoro dignitoso.

Nella recente analisi dal titolo The Circular Economy: a Transformative Covid-19 Recovery Strategy[12], la Fondazione Ellen MacArthur analizza i profondi cambiamenti avvenuti nel settore, uno dei più colpiti dalla pandemia. Basti pensare che nel 2019 il settore moda italiano aveva registrato un giro d’affari totale di 71,1miliardi (+20,8% sul 2015), con una crescita media annua delle vendite nel 2015-2019 del 4,8%, mentre per il 2020 si prevedono perdite pari al 23% del fatturato[13]. Dati recenti[14] dimostrano come la pandemia stia contribuendo a velocizzare il percorso virtuoso dell’industria della moda verso scelte green e sostenibili, incalzata dalle scelte sempre più consapevoli dei consumatori. Molte aziende di moda hanno infatti investito tempo e risorse per ridisegnare i modelli di business, snellire le operazioni e affinare le proposte ai clienti[15].

Al pari delle altre realtà del settore, anche l’industria della pelle, ancora prima della crisi Covid-19, stava portando avanti un percorso di analisi dei processi industriali e dei processi interni alle singole aziende al fine di ridurre scarichi idrici ed emissioni[16]. L’industria, che si compone di diversi settori a partire dal mercato delle pelli grezze derivate dall’industria alimentare fino alla produzione di beni di consumo in pelle, vede in Italia la conciatura del 23% delle pelli a livello globale. Flessibilità e adattabilità dei materiali si prestano a svariate applicazioni dal settore calzaturiero e degli accessori, all’abbigliamento fino all’arredamento. Alcuni di questi settori sono altamente industrializzati, altri, invece, concedono ampio spazio alle mani esperte degli artigiani. A Napoli, dal 1885, la Stazione Sperimentale per l’Industria delle Pelli e delle materie concianti (SSIP), collegata all’Unione Nazionale Industria Conciaria (UNIC), opera attraverso attività di ricerca e sviluppo, formazione e consulenza, certificazione di processi e prodotti, analisi e controlli a supporto delle aziende impegnate nel settore. Analisi specifiche sono avviate in merito alle trasformazioni che si verificano nel corso della lavorazione conciaria e all’interazione della pelle con l’ambiente circostante, con l’obiettivo di perfezionare sistemi produttivi a minor impatto ambientale[17]. Alcuni grandi marchi della moda internazionale hanno stabilito requisiti minimi e requisiti aggiuntivi alla luce dei quali viene procurata, trattata e lavorata la materia, impegnandosi a proporre prodotti conciati chrome-free o metal-free, assicurandone la tracciabilità e fornendo i KPI ambientali (indicatori chiave di rendimento ambientale). Il Leather Working Group ha riunito oltre 1000 stakeholder tra cui produttori di pelle e di capi in pelle, commercianti, rivenditori e marchi, associazioni del settore e fornitori di prodotti chimici, macchinari e test per l’analisi dei materiali, avviando così la prima certificazione mondiale per la produzione di pelle, con l’obiettivo di garantire la tracciabilità delle materie prime e la riduzione nell’uso di sostanze chimiche valutando e certificando le prestazioni ambientali degli impianti[18].

Per molti anni il bilanciamento tra sviluppo economico e sostenibilità ambientale è stato rappresentato come un trade-off [19]. Il G20 Environment, Climate and Energy, che il governo italiano sta organizzando per il prossimo luglio a Napoli, è senza dubbio il setting privilegiato per la costruzione di politiche attive, ambiziose e trasformative capaci di sostenere e incoraggiare la transizione verso un’economia inclusiva e rispettosa dell’ambiente. La recente pubblicazione dell’United Nation Environment Programme (UNEP) dal titolo Making Peace with Nature[20] sintetizza e presenta le ultime fondamentali evidenze scientifiche per affrontare le emergenze di clima, biodiversità e inquinamento. In questo, l’economia circolare è presentata come uno strumento fondamentale per raggiungere un futuro sostenibile per il benessere del pianeta e dei suoi abitanti. Il concetto di economia circolare si contrappone a quello conosciuto come “take, make and waste” proprio dell’economia lineare, incapace di rispondere alla sempre più evidente e incombente limitatezza delle risorse. L’economia circolare è progettata per auto-rigenerarsi in cicli in cui gli scarti e l’inquinamento sono minimizzati grazie al design consapevole di processi, prodotti e servizi che garantisce il mantenimento del valore delle risorse e il rinnovamento dei sistemi naturali[21].

Nell’ambito dei Sustainable Development Goals (SDGs), l’economia circolare è connessa al consumo e produzione sostenibile (SDG 12), all’energia (SDG 6), alla crescita economica e al lavoro dignitoso (SDG 8), ai cambiamenti climatici (SDG 13), agli oceani (SDG 14), alla vita sulla terra (SDG 15) e, naturalmente, alle città e comunità sostenibili (SDG 11). Nel mese di febbraio 2021, durante il lancio della Global Alliance on Circular Economy and Resource Efficiency – GACERE, l’economia circolare è stata definita come un processo basato su un “cross cutting approach”. Sulla stessa linea d’onda, il G20 Resource Efficiency Dialogue è stato costituito dai paesi membri per facilitare lo scambio di conoscenze sulle azioni e le buone pratiche che hanno avuto successo nel migliorare l’efficienza delle risorse lungo l’intero ciclo di vita. Il Green Deal Europeo si pone l’obiettivo di mobilitare l’industria per un’economia pulita e circolare le cui azioni dovranno necessariamente essere concordate nei prossimi cinque anni, poiché occorrono 25 anni (una generazione) per trasformare efficacemente un settore industriale e tutte le catene del valore[22]. Secondo le stime di The Circularity Gap Report 2020[23], l’economia globale è circolare solo per l’8,6%, mentre, soltanto due anni prima della pubblicazione del report, il tasso era pari al 9,1%[24]. Questo significa che oltre il 90% delle risorse che entrano nell’economia a livello globale (100 miliardi di tonnellate all’anno) vengono a tutt’oggi sprecate[25].

In questa prospettiva l’industria della moda, con il suo grande impatto, è guardata con attenzione. Nella Risoluzione del Parlamento europeo del 10 febbraio 2021, che approva il Nuovo piano d’azione per l’economia circolare[26], una parte specifica è dedicata all’importanza di una nuova strategia globale dell’UE sulla catena di valore del tessile, al fine di promuovere sostenibilità, circolarità, tracciabilità e trasparenza del settore tessile e dell’abbigliamento. In considerazione della dimensione del fast fashion, si richiede alla Commissione di lavorare a un insieme coerente di strumenti politici e norme stringenti, e di sostenere nuovi modelli commerciali per affrontare l’intera gamma di impatti ambientali e sociali lungo tutta la catena del valore e migliorare la progettazione del settore attraverso una combinazione di requisiti di progettazione ecocompatibile, regimi di responsabilità di chi produce e sistemi di etichettatura. Il Parlamento, inoltre, conferisce priorità alla prevenzione e alla sostenibilità dei rifiuti, alla riutilizzabilità e alla riparabilità, nonché al contrasto all’utilizzo di sostanze chimiche pericolose e dannose, in linea con il “principio delle 3 R” (riduzione, riuso e riciclo).

Nella transizione che si sta producendo si arriva a disegnare e produrre oggetti a basso impatto, tramite i principi dell’up-cyling, o riutilizzo creativo di prodotti o materiali inutili o indesiderati in nuovi oggetti di maggiore qualità, valore artistico e valore ambientale. Sono per questo necessarie nuove conoscenze e competenze che lavorino in maniera transdisciplinare e collaborativa in tutte le fasi del ciclo, ricerca e progettazione, produzione, commercializzazione, ricorrendo a un design intelligente che aumenti il valore estetico, ambientale ed economico.

Anche l’economia circolare deve considerare l’aspetto sociale e inclusivo dei processi produttivi, sia come valore che va incontro a una sensibilità sempre più sentita dai consumatori, sia nello spirito dell’Agenda 2030, che comprende l’attenzione per le fasce più deboli della società e lavoro dignitoso per tutte le persone, incoraggiando lo sviluppo di competenze e talenti tra le persone fragili in un cammino inclusivo e responsabile. Una prospettiva delineata anche dal Patto per il Lavoro e per il Clima recentemente (15 dicembre 2020) promosso dalla Regione Emilia-Romagna[27].

La transizione dovrà essere quindi accompagnata da politiche di sostegno al lavoro e alla ricerca attiva, di formazione alle nuove tecnologie, di tutela delle povertà, di finanza etica. Per curare adeguatamente la dimensione sociale della transizione, inoltre, il sistema educativo, il terzo settore, il mondo della formazione e le imprese dovranno dialogare e collaborare per delineare nuovi sistemi educativi e formativi (up-skilling e re-skilling di lavoratori e lavoratrici, in particolare quelli/e a rischio di esclusione perché inseriti/e in settori dell’economia lineare). In questo processo di transizione, dato che le lacerazioni interne alla società stanno aumentando anche in seguito alla devastazione sociale ed economica portata dalla pandemia, è fondamentale che il G20 riaffermi l’importanza di lavorare esplicitamente sul contrasto alle disuguaglianze, per evitare la creazione di nuove polarizzazioni sociali ed economiche.

[1] https://www.ellenmacarthurfoundation.org/publications

[2] Ibidem.

[3] International Energy Agency, Energy, Climate Change &Environment: 2016 insights (2016).

[4] https://www.repubblica.it/green-and-blue/2020/12/23/news/che_fine_fanno_i_nostri_abiti_usati-279214965/ pubblicato in data 23/12/2020.

[5] Ibidem.

[6] http://www.unicircular.org/files/Italia%20del%20Riciclo_Capitolo%20Tessile.pdf

[7] S. Niessen, “Fashion, its Sacrifice Zone, and Sustainability”, Fashion Theory, 2020, 24:6, pp. 859-877, citato in Sustainability files – Managing fashion waste in Ghana, Afrosartorialism – A research project on African fashion digitalities, https://www.afrosartorialism.net/

[8] Dal report Fashion Transparency Index 2020 del movimento Fashion Revolution: https://issuu.com/fashionrevolution/docs/fr_fashiontransparencyindex2020?fr=sNmI5NzYxMDk0OA

[9] https://knowthechain.org/wp-content/uploads/KTC_AF_ExternalReport_Final.pdf

[10] https://www.globalslaveryindex.org/

[11] https://ethicalfashioninitiative.org/

[12] https://www.ellenmacarthurfoundation.org/publications/covid-19

[13] https://www.ilsole24ore.com/art/per-moda-e-l-europa-pagare-conto-piu-salato-pandemia-ADbuDyKB pubblicato in data 19/02/2021.

[14] https://www.ansa.it/canale_lifestyle/notizie/moda/2021/01/29/meno-acquisti-piu-etica-la-moda-finalmente-si-muove.-5-tendenze-chiave-in-atto-esclusiva_8091d9bb-d979-44fb-9d0e-b54e62274520.html pubblicato in data 07/02/2021.

[15] https://www.mckinsey.com/~/media/McKinsey/Industries/Retail/Our%20Insights/State%20of%20fashion/2021/The-State-of-Fashion-2021-vF.pdf .

[16] UNIC, Concerie Italiane – Rapporto di sostenibilità dell’industria conciaria: https://unic.it/storage/Rapporto%20sostenibilit%c3%a0%202019/ReportSostenibilit%c3%a0UNIC2019_ITA.pdf .

[17] https://ssip.it/

[18] https://www.leatherworkinggroup.com/

[19] https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/lotta-al-cambiamento-climatico-e-sostenibilita-le-sfide-del-g20-29537 pubblicato in data 05/03/2021.

[20] https://www.unep.org/resources/making-peace-nature

[21] N. M. Gusmerotti, M. Frey e F. Iraldo, Management dell’economia circolare. Principi, drivers, modelli di business e misurazione, 2020, p. 9.

[22] https://eur-lex.europa.eu/legal-content/EN/TXT/?qid=1596443911913&uri=CELEX:52019DC0640#document2

[23] https://www.circularity-gap.world/2020

[24] https://www.circularity-gap.world/2021

[25] https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/lotta-al-cambiamento-climatico-e-sostenibilita-le-sfide-del-g20-29537

[26] https://www.europarl.europa.eu/doceo/document/TA-9-2021-0040_IT.html

[27] https://www.regione.emilia-romagna.it/pattolavoroeclima